Essere sé stessi è un lavoro faticoso. Non riesce facile a tutti, qualcuno rinuncia a favore di una sperata tregua e serenità. Altri non sanno quali domande farsi, figuriamoci capire dove cercare le risposte.
Mi capita spesso durante le sessioni di ascoltare i miei partner raccontarsi in termini che però, profondamente, non sento appartenergli.
Credenze, opinioni, idee stereotipate che arrivano dall’esterno e che assumono nel tempo la forma di un vestito difficile da togliere: sono troppo impulsivo, sono diffidente proprio come tutti i miei conterranei, devo diventare più efficace, devo imparare ad essere meno dispersivo, non so tenermi un lavoro per più di un anno, se non imparo il metodo che mi stanno insegnando sarò sempre un fallito, alla fine sono tale e quale ai miei genitori.
L’idea complessiva che ci facciamo di noi è sicuramente frutto di esperienze, osservazione più o meno attiva degli altri e delle nostre relazioni, ma anche della nostra formazione e di una professionalità sempre più definita mano mano che lavoriamo.
Se però teniamo strette a noi definizioni che vengono dagli altri ma che in realtà non ci appartengono, rischiamo di investire un sacco di energia tentando di superarle o confutarle.
Un po’ come se portassimo sempre con noi una valigia che ci è stata data senza averla scelta e che nel tempo diventa sempre più pesante e ingombrante.
Così, mentre sviluppiamo competenze e facciamo scelte lavorative e personali che sentiamo veramente nostre, ci sforziamo di capire come armonizzare un’immagine di noi stessi che però non ci appartiene, non è ciò che accompagna il nostro agire.
Chissà come viaggeremmo se ad un certo punto questa valigia la lasciassimo in un deposito, girandole le spalle.
Chissà dove andrebbe a quel punto tutta l’energia fino a quel momento impegnata in un labirinto di decisioni inefficaci.
E chissà quanto ci piacerebbe, finalmente, essere solo noi stessi. In una vita senza valigia.
(Foto di Richard James su Unsplash)