
Stanotte mi sono addormentata con un pensiero: come faccio a smettere di farcela? E poche ore dopo sono saltata sul letto per un terremoto che sembrava arrivare direttamente dalle fondamenta di casa mia. Se nulla è un caso…
Come si fa a smettere di farcela per un plusdotato? Come si riesce ad interrompere quel flusso di pensieri senza fine, di visione del futuro, di paure ma anche di coraggio misto a ostinazione?
Non ci si pensa quasi mai, qualcuno lo dice ma poi il pensiero diviene fumo di nebbia all’incedere del sole del mattino. Sei forte, sei intelligente, sei determinato, sei sempre qualcosa di grande, di oltre. E quindi, se c’è qualcuno che può farcela, quello sei proprio tu.
Giusto.
Ma se non volessi sempre farcela? Se invece avessi bisogno di interrompere questa incessante energia creativa e creatrice, che è un po’ croce e delizia, e semplicemente sedermi? Senza un motivo, senza neanche un’attesa, solo stare.
Osservare la mia vita alla luce del mio lavoro, grazie al quale sono spettatrice di quella di molti altri gifted, mi regala una prospettiva unica e privilegiata.
Siamo i nostri più complessi compagni di viaggio. Non ci riconosciamo sforzi e successi, difficilmente ci diciamo parole buone e di conforto, e la fine della giornata è spesso un lungo elenco di avrei dovuto fare, avrei potuto dire, avrei potuto pensare…e di da domani che muoiono all’alba, sepolti da un flusso di pensieri praticamente senza fine.
Abbiamo questa lucidità che tutto evidenzia, i minimi particolari, le sfumature, le intenzioni dietro le parole dette, i gesti che accompagnano quelle che invece muoiono prima di nascere. Capita che gli altri patiscano questo modo di essere, ma la realtà è che sfianca terribilmente per primi proprio noi. Giudici e carnefici, implacabili e spietati.
Il dialogo interiore, tutti quei no e quei dovrei con cui ci cuciamo addosso una sorta di brutto vestito che con lo scorrere del tempo diviene sempre più stretto e soffocante, spesso diviene un esercizio di stile che, senza accorgercene, modifica gli argini naturali del nostro modo di esistere.
Quanto rompe allora gli schemi interni imparare a dirsi grazie, a riconoscersi il proprio fare, magari persino appuntandolo in agenda, per rileggerlo quando i dubbi ritornano. Certo, imparare ad osservarsi con occhi neutrali è un esercizio tanto semplice quanto faticoso da mantenere nel tempo. Ma assicura una piccola libertà da noi stessi che alla fine impariamo a difendere con la tenacia che, questa sì, ci sappiamo riconoscere benissimo.
Quando lavoro con una persona plusdotata la prima cosa su cui agiamo è proprio il suo dialogo interiore: osservare e mettere in luce le parole con cui ci si definisce permette di cominciare a porre attenzione e a comprendere, prima di come farlo, cosa ci stiamo impedendo di mostrare di noi stessi. Anche di fronte ad uno specchio.
Pensiamo sempre che il “nemico” sia qualcosa o qualcuno, che sia fuori di noi, parte del nostro ambiente lavorativo o familiare. Facilmente crediamo che l’altro e il suo giudizio – fuori dalla nostra co-responsabilità – ci definisca, ci qualifichi, quasi cristallizzandoci in ruoli o atteggiamenti come tante statue di sale.
Siamo dipendenti che non sanno adattarsi alle regole aziendali, difficili da inquadrare e gestire. O padri troppo ansiosi, che vedono – secondo gli altri – ciò che non c’è di un figlio a sua volta gifted. O quell’amico permaloso, che non capisce mai i sottintesi, tra l’ingenuo e iper perfezionista.
Siamo donne e uomini adulti che si sentono fuori posto, fuori tempo, fuori sintonia, in un loop continuo asincrono e sfuggente.
Ecco che la vita allora diviene per qualcuno una lotta continua a voler dimostrare di non essere come ci vedono. Ed è tanta l’energia che ci mettiamo che dimentichiamo la cosa invece più importante: noi stessi. Al punto da renderci persino invisibili ai nostri stessi occhi, determinati sì, ma per le ragioni e per gli obiettivi sbagliati.
Si imparano le parole di amore, si apprendono i gesti del cuore, le carezze che la nostra lingua può fare alla mente se pronuncia quei grazie, o quei vai bene così come sei un giorno dopo l’altro. Si può imparare a camminare di nuovo, come se fosse una prima volta – e spesso è proprio così che ci si sente – se si inizia a dedicarsi del tempo. Che sia di qualità, che sia fatto di spazio, spesso da lasciare anche vuoto, senza l’ansia di riempirlo per forza di qualcosa.
Se si comincia a dare voce alle emozioni, che per noi sono come un fiume di cui vogliamo tanto modificare il percorso, dimenticandoci che la sua potenza non solo non potrà mai diminuire, ma ci travolgerà appena ne avrà modo.
Se si inizia a dirsi che va bene anche non volercela più fare, e fermarsi, magari seduti sulla riva di quel che c’è in quel momento, senza giudicare. Osservarsi, respiro dopo respiro, e scoprire quel che di buono e di bello c’è in noi.
Perché sì, siamo plus ma siamo soprattutto dotati. E di un dono, di un privilegio simili dovremmo sempre averne massima cura e rispetto.
Malgrado noi.
Grazie a noi.