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La competitività della neurodiversità

Quando nel 1998 Judy Singer coniò il termine “neurodiversità” pose per la prima volta l’accento, come scienziata sociale con tratti autistici, sulle qualità e le risorse delle persone neurodiverse, dando valore al loro modo unico di imparare, pensare ed elaborare le informazioni.

Uscendo dal concetto di approccio ad una malattia che, fino a quel momento, accompagnava le diagnosi non solo di autismo ma anche di plusdotazione, dislessia, ADHD, disprassia, ecc., diede modo di trasformare la narrativa legata a questi aspetti di diversità neurologiche  ponendole, di fatto, al centro di una valorizzazione dei loro talenti più mirata e specifica.

Scrisse Harvey Blume, che rese popolare il termine in un numero di The Atlantic del ’98:

“La neurodiversità può essere altrettanto cruciale per la razza umana quanto la biodiversità lo è per la vita in generale. Chi può dire quale forma di cablaggio si dimostrerà migliore in un determinato momento? La cibernetica e la cultura informatica, ad esempio, possono favorire un modo di pensare un po’ autistico.”

 
Di anni ne sono passati molti, e in questo articolo dell’Harvard Business Review affronta con particolare cura la neurodiversità, descrivendola come un vero e proprio vantaggio competitivo.

Oltre le persone autistiche, molti neurodiversi hanno capacità superiori alla media – memoria, capacità matematiche, riconoscimento di schemi anche sociali e sistemici, intelligenza emotiva e forte empatia – che non sempre vengono evidenziate e sostenute in ambito lavorativo.

Pensate a chi ha un’alta sensibilità emotiva e sensoriale, o a chi ha moltissimi interessi in campi della conoscenza spesso non collegati tra di loro: di fronte a questo tipo di modalità di pensiero e di elaborazione cognitiva, sensoriale e ipersensibile non ci si può presentare con un pensiero lineare, rigido e inscatolato in procedure che appaiono, a ben vedere, stantie e obsolete.

Come stanno cambiando alcuni scenari

L’esempio lo portano quelle aziende che hanno in questi ultimi anni creato e incentivato programmi specifici sviluppati sulle neurodiversità, raggiungendo obiettivi fino a quel momento poco evidenziati in relazione ad un approccio nuovo, e ottenendo vantaggi che includono guadagni nella produttività, miglioramento della qualità generale e specifica, potenziamento delle capacità innovative e maggior coinvolgimento di tutti i dipendenti.

Come ben evidenzia Harvard, esempi come SAP, Hewlett Packard Enterprise (HPE), Microsoft, Willis Towers Watson, Ford e EY, affiancati nel tempo da altri – Caterpillar, Dell Technologies, Deloitte, IBM, JPMorgan Chase e UBS – hanno già da qualche anno potenziato la ricerca e lo sviluppo di approcci mirati partendo proprio da questo specifico punto di osservazione dei talenti.

Avere maggiore sensibilità alle caratteristiche di ogni singola persona appare, dunque, la strada per trasformare a livelli più profondi le aziende: dalla cultura alla produttività, mettere al centro la persona diviene in questo senso una scelta obbligata.

  • Nella tua azienda, quanto spazio stai dando alla creatività?
  • Quali sono le sfide che proponi ai tuoi dipendenti per dare voce ai loro talenti?
  • Con chi ha bisogno di comprendere il contesto, quanto tempo dedichi a spiegare i “perché” di un progetto senza considerarlo uno spreco di energie.

E se la neurodiversità è qualcosa che appartiene a te, come stai progettando la tua vita?

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